Ultima modifica: 27 gennaio 2022
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Il 27 gennaio e il corto circuito di memoria pubblica

 

Il Paese manifesta l’urgenza di un cambiamento. Il cambiamento parte dalla scuola. L’intervista a Tullia Catalan, docente di Storia contemporanea ed esperta di antisemitismo e antislavismo.

27/01/2022

Sono passati quattro mesi dall’atto di squadrismo fascista che si è riversato contro la sede della CGIL Nazionale a Roma. Erano i primi di ottobre. Non era trascorso, allora, troppo tempo dall’attacco a Tomaso Montanari, aggredito a mezzo stampa e social (non solo dalla destra neo o post fascista), al quale erano state chieste addirittura le dimissioni da rettore dell’Università per stranieri di Siena, per aver condannato l’uso strumentale e politico che la destra neofascista fa delle Foibe, ingigantendo la vicenda da un punto di vista storico, numerico e soprattutto cercando di equipararla alla Shoah, dopo aver ottenuto una Giornata del Ricordo messa in calendario il 10 febbraio. Sembrava che questa follia si fosse fermata e invece abbiamo salutato l’anno nuovo con il funerale shock, di matrice nazista, che si è svolto a Roma, nel cuore del rione Prati, non troppi giorni fa. La giornata della memoria che ricorre ogni 27 gennaio dalla sua istituzione, più di 20 anni fa, ci dà l’occasione per riflettere su tutto questo. Sulla memoria che, a quanto pare, sembra vacillare sempre di più.

Perché è evidente che tutto questo manifesta l’urgenza di un cambiamento e che è tutto collegato proprio ad un corto circuito di memoria. E che o l’antifascismo diventa pratica quotidiana di tutti i cittadini oppure la retorica e la prassi neo e post fascista finirà per radicarsi. Con tutte le conseguenze che, forse, possiamo solo immaginare.

Anche se le conseguenze, probabilmente, si stanno già verificando. Perché l’intimidazione nel mondo accademico è, e dovrebbe essere, inconcepibile in una Repubblica antifascista.

Per questo abbiamo chiesto una intervista a Tullia Catalan, docente di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università degli studi di Trieste, i cui interessi di ricerca riguardano i rapporti fra il mondo ebraico e la società fra Ottocento e Novecento in Italia e in Europa centro-occidentale e che di recente si è occupata di antisemitismo e antislavismo.


Professoressa, partiamo proprio dalla Giornata della Memoria e dalla sua contrapposizione, politicamente voluta, con il Giorno del Ricordo, concepito per parificarlo alla memoria della Shoah. Secondo Montanari la falsificazione storica consiste proprio nel sostenere che le foibe siano uguali all’Olocausto. Lo dimostra un disegno di legge del 2019 che vorrebbe­ rafforzare gli strumenti e le forme disponibili di contrasto fe­nomeni di negazionismo, giustificazionismo e riduzionismo del massacro delle Foibe equiparando, anche sul piano penale, la negazione delle Foibe con la negazione della Shoah. Vorremmo conoscere il suo parere in merito all’idea di questa falsificazione storica e alla conseguente idea di banalizzazione della Shoah.

La legge stessa che istituisce il Giorno del Ricordo è stata concepita per parificarlo alla memoria della Shoah, nel sostenere che le Foibe siano uguali all’Olocausto. Queste due date tendono volutamente ad intrecciarsi. Ma è una banalizzazione voluta politicamente: non è assolutamente possibile farlo. E lo dicono gli storici. È giusto e doveroso istituire il Giorno del Ricordo ma è giusto dire (e non lo dice nessuno) che questo non comprende solo le Foibe, ma anche l’esodo istriano dalmata, che di solito viene quasi dimenticato, e invece è stato un tragico spostamento forzato di popolazione che segnò quasi 250 mila persone che si sono viste rimossi dalla memoria collettiva. Questo perché? Perché ciò che spinge a equiparare le Foibe alla Shoah è una strumentalizzazione politica, che non contestualizza le vicende e ne tace delle altre. Usando anche dei termini sbagliati, inappropriati, come quello di “pulizia etnica”. Questa è falsificazione. Quella delle Foibe non fu una pulizia etnica. Non si fecero fuori indiscriminatamente tutti. Il linguaggio utilizzato, falsificato, quindi non è casuale. Viene usato appositamente per renderlo macroscopico. Ma il fenomeno macroscopico lo è già. Solo che bisogna spiegare perché. Fare graduatorie è un rischio terribile.

La verità è che sono due tragedie italiane ma che non hanno agganci tra loro. Accostandole, le banalizziamo entrambi. Quindi da un lato dimentichiamo l’esodo e dall’altro, ad esempio, non parliamo delle responsabilità del fascismo: si parla solo dei nazisti, non degli italiani che aiutarono i nazisti a rastrellare gli ebrei (e non solo) e a metterli sui treni che andavano nei campi di sterminio.

La storia bisogna spiegarla bene. E spiegarla tutta.

Il discorso si Montanari, a mio avviso, è stato un po’ troppo didascalico. Quando l’ho ascoltato, prevedendo il caos che avrebbe generato, l’ho trovato un po’ troppo tagliato con l’accetta. Perché se si dice che non si possono paragonare delle vicende bisogna spiegare perché, altrimenti sembra che se ne voglia sminuire una. A me chiaramente era chiaro cosa volesse dire, ma per come lo ha detto, ha dato libertà a chi voleva interpretare male di farlo. E infatti è successo. E tutto quello che ne è derivato è chiaramente inaccettabile.

Qualche anno fa ha scritto un libro, “Fratelli al massacro”, in cui esamina i meccanismi attraverso i quali, negli anni a cavallo del primo conflitto mondiale, si formarono il linguaggio e gli stereotipi usati nella narrazione del nemico e ricostruisce quel percorso di discriminazione linguistica che ha visto la comparsa, accanto a stereotipi già in uso, di metafore zoologiche e di quell’animalizzazione del nemico che sarà tipica del discorso propagandistico della Grande Guerra. Come nasce e da dove viene lo stereotipo legato all’antislavismo e all’antisemitismo?

Antislavismo e antisemitismo sono andati sempre insieme, al contrario di come si possa pensare, e le radici di entrambi risalgono alla fine dell’800. Quando ci troviamo di fronte all’idea di nazione, quando l’idea di patria non è più l’idea che abbiamo imparato dai padri del risorgimento, da Mazzini, che avrebbe incluso tutti, ma al contrario ci ritroviamo di fronte a un’idea che comincia a differenziare, a dire esistiamo “noi” e poi ci sono “loro”. Ed è proprio a fine dell’800 che si sviluppano tutta una serie di stereotipi, specie sulla stampa, legati l’animalizzazione del nemico. E cominciano le grandi campagne antisemite e antislaviste. Gli slavi vengono visti come dei barbari, si parla di loro come di “orde”, diventano lupi. Gli ebrei diventano zecche. È la prima guerra mondiale il momento in cui a livello di massa impariamo cos’è la demonizzazione del nemico. Perché è proprio la guerra a farlo. E ciò continuerà: i manifesti della prima e della seconda guerra mondiale sono uguali, cambia lo slogan. E tutto questo lo ritroviamo poi nella rivoluzione d’ottobre quando il nemico sono i comunisti ed è proprio lì che verrà coltivato l’anticomunismo classico che riemerge ed è sempre monolitico. Il comunismo è uno e uno soltanto. Si va per semplificazione e cristalizzazione ed è esattamente così che nascono gli stereotipi: dal pregiudizio che nel tempo si cristallizza e diventa stereotipo. Stereotipo che diventa molto difficile da demolire. Così come è uno stereotipo il mito del bravo italiano e del cattivo tedesco, quando invece la responsabilità fascista è enorme.

Che visione hanno i ragazzi oggi di tutto questo? Qual è la loro percezione della storia e della falsificazione storica?

Spesso i ragazzi non hanno una vera visione di questi fatti. Spesso non sanno quasi niente. Alcuni miei studenti universitari, e lo ritengo molto grave, non sanno nemmeno cos’è un partito politico. La responsabilità della scuola è grande, in questo senso. Così come lo è quella della società e della narrazione pubblica. Il problema a mio avviso è anche questo: la Giornata della Memoria si celebra nelle scuole ormai dal 2001. Si fa dalla prima elementare all’ultimo anno delle superiori. E i ragazzi spesso mi dicono che sono stufi. Perché il problema è, come viene fatta? Spesso, sempre allo stesso modo. Si fa vedere un film, si fa assistere a una conferenza. E basta. Anche a livello cronologico, Giornata della Memoria e Giorno del Ricordo cadono una dopo l’altra. Se i ragazzi non sono ben preparati, specie dagli insegnanti, finisce che cominciano a crearsi pericolose sovrapposizioni e conseguenti banalizzazioni.

In tutto questo discorso che fine fa l’antifascismo? Secondo lei siamo sul serio al punto di dover ricominciare a dare lezioni di antifascismo? E se sì, quale potrebbe essere il modo corretto di farlo?

Credo che quello che dobbiamo chiederci oggi davvero è proprio questo: cosa significa essere oggi antifascisti? È chiaro che l’antifascismo non può essere più quello del ‘45. I ragazzi non capirebbero. Bisogna tradurlo nei problemi attuali della società. Durante il periodo del fascismo le leggi razziali del ‘38 hanno portato a correnti migratorie pesanti e forzate, non solo di ebrei, in tutta Europa. Si crea una situazione di profughi che partono senza nulla e nel momento in cui entrano negli altri paesi hanno forme diverse di accoglienza. In Italia gli ebrei vengono trattati come bestie. Spiegare un antifascismo oggi potrebbe essere prendere l’esempio dei rifugiati che arrivano da noi e chiedono asilo. E noi? Come rispondiamo? Negli anni, a mio avviso, abbiamo dato risposte dove non vedo tradizione di antifascismo. Antifascismo è rispetto di diritti, di libertà, capacità di accoglienza, tutto quello che sta nella nostra meravigliosa Costituzione. Secondo me quello che è necessario è come insegnanti interrogarsi proprio su quali sono gli strumenti per far agire veramente i valori dell’antifascismo. Quindi va bene il calendario civile. Ma bisogna riempirlo davvero. Esponendo bene i fatti agli studenti, contestualizzandoli, non giocando sull’emotività che fa scendere una lacrima e il giorno dopo ci si è già dimenticati tutto. Senza dire “mai più Auschwitz”, quando altri genocidi sono stati commessi dopo, quando respingiamo indietro i profughi e li mandiamo a morire senza battere ciglio. Senza dire “mai più”, ma spiegare loro cos’è il nemico, qual è il suo ruolo nelle guerre, aiutandoli a capire perché ad esempio gli ebrei vengono presi come capro espiatorio. Senza dire “mai più” a loro che non sanno cos’è il 25 aprile e quindi non conoscono la Costituzione. C’è un circuito di memoria, di memoria pubblica, che dobbiamo riparare. E allora riempiamo queste date, spieghiamole e non banalizziamole, rendiamole vive. Torniamo a parlare di Costituzione, di diritti e doveri. Torniamo a parlare di antifascismo, chiedendoci in prima persona, noi, cosa possiamo fare per essere antifascisti ogni giorno. E le nostre parole non saranno sprecate.