Il virus del precariato
Da tanti anni in classe, con laurea e spesso anche specializzazioni: ma per essere stabilizzati non basta. Tre insegnanti raccontano i percorsi accidentati di un lavoro difficile e poco riconosciuto
Stefano Iucci
Si sentono presi in giro da questo come da tanti altri governi del passato. Ignorati qualche volta, o tollerati, più spesso, quando diventano indispensabili per reggere il peso di una scuola – quella italiana – che solo lo scorso anno è andata avanti grazie a 170.000 supplenze. Sono i precari. Insegnanti in cattedra anche da dieci anni, licenziati a giugno ma sempre riassunti a settembre: quello che un tempo si sarebbe chiamato un esercito di riserva. Meno costoso e sempre pronto. Anche quest’anno, come capita spesso, sono finiti in un tritacarne che è molto ideologico e poco rispettoso: quello del “merito”.
La vicenda è nota ma vale la pena riassumerla: per chi ha almeno tre anni di insegnamento è stato bandito un concorso straordinario, reso necessario da una importante sentenza della Corte di giustizia europea di qualche anno fa che aveva redarguito l’Italia per la reiterazione dei contratti a tempo determinato nella scuola. Visto l’anno straordinario che ci aspetta dopo l’emergenza sanitaria, i sindacati avevano chiesto una procedura particolare per avere i docenti stabilizzati da settembre: niente test estivi e subito in cattedra per poi concludere la verifica al termine dell’anno di prova.
La proposta non è passata: in base a una strana idea di merito e selezione, verranno assunti come precari e poi, durante l’anno, dovranno svolgere il concorso. Un punto di resistenza ideologica sui cui il M5S non ha voluto cedere, tuonando contro una presunta sanatoria. Dimenticando che queste persone hanno laurea, titoli per insegnare, tanti anni in cattedra e che, soprattutto, anche qualora venissero respinti al concorso, continuerebbero a stare in cattedra come supplenti. Questo capitolo, insieme alle risorse, è quello che ha spinto i sindacati ha proclamare lo sciopero generale della scuola per l’8 giugno.
Dieci anni in classe
La storia di Simona Scozia è emblematica, e testimonia anche di una specificità tutta femminile della questione. “Ho lavorato per dieci anni in una multinazionale con sede a Milano. Sono diventata madre e mi sono trasferita a Reggio-Emilia, senza alcun aiuto da parte dell’azienda che mi ha rifiutato part-time e telelavoro. Ho provato a continuare il pendolarismo, ma alla fine non ce l’ho fatta più, quindi ho accettato un incentivo in uscita e ho ricominciato da capo come precaria nella scuola”.
Scozia lavora a scuola da 10 anni ed è ancora precaria, insegna economia, diritto e matematica. “Mi fa male – racconta – sentir dire che vogliamo la pappa pronta. Mi sono rimboccata le maniche, ho cominciato con supplenze anche brevissime, ho insegnato in carcere e al serale, incastrando come potevo famiglia e lavoro”. Il punto centrale per la docente è questo: “In 10 anni non sono mai stata messa nelle condizioni di prendere l’abilitazione. Nel 2012 non c’erano posti nella mia classe di concorso, il Tfa (Tirocinio formativo attivo, che forniva l’abilitazione, ndr) non ho potuto farlo perché avevo bambini piccoli e per i Pas (Percorsi abilitativi speciali, ndr) non avevo i tre anni continuativi di insegnamento necessari”. Insomma, in un labirinto di acronimi e paletti, “manca un percorso definito che faccia sì che, in un tot numero di anni, un docente arrivi all’abilitazione e dunque alla cattedra. Non chiediamo nessuna regalia, ma la certezza di un percorso”.
E poi c’è il rischio della beffa: “Il concorso ordinario che si svolgerà il prossimo anno è anche abilitante. Questo vuol dire che se non supereremo la prova straordinaria, saremmo di nuovo superati nelle graduatorie dai vincitori del concorso ordinario, che saranno neo-laureati, giovani e preparatissimi, ma senza l’esperienza di tanti anni in cattedra e il lavoro svolto con dedizione per tanto tempo che evidentemente non conta più nulla. E noi continueremo a fare supplenze e, purtroppo, a essere sfruttati dallo Stato”, conclude l’insegnante.
Come si valuta il lavoro di un insegnante?
Anche Simone Maggini, insegnante di educazione fisica ad Arezzo, è finito nella maglie di questo concorso straordinario così poco straordinario. “A settembre inizierò il mio sesto anno da precario, e nonostante questo, nonostante tutta l’esperienza accumulata – ho lavorato anche sul sostegno – dovrò fare un concorso per diventare di ruolo. Un esame che è sempre un terno al lotto, visto che le variabili legate anche a fattori esterni sono tantissime”. Non solo: “Il lavoro di un insegnante non si può valutare solo con un compito scritto: conta lo stare in classe, l’esperienza, l’empatia che si genera con gli studenti. Ci trattano come se fossimo dei ragazzini appena usciti dall’università”.
Anche Maggini insiste su un aspetto: “Non chiediamo un regalo, ma un anno formativo abilitante, un anno in cui ci può essere una valutazione in itinere e poi finale, che sarebbe anche più facilmente conciliabile con il lavoro che facciamo. Insomma: si parla di merito, ma poi non ci vogliono formare seriamente: a me sembra che sia soprattutto propaganda, altro che valorizzazione dell’insegnamento”.
Anche la specializzazione non serve
Ma ci sono situazioni persino più singolari, come quelle di chi, in questo ginepraio di percorsi e sentieri impervi e interrotti al prossimo concorso straordinario non può neanche partecipare. È il caso di Licia Ricci, laurea in lettere e tanti di anni di lavoro – ben 10 – a scuola, su “cattedra” e soprattutto sul sostegno. La sua situazione merita di essere raccontata. Pur essendo di Roma sud, Ricci per lavorare ha dovuto iscriversi nelle graduatorie della provincia di Rieti: facendo avanti e indietro e affittando un posto per dormire per i giorni di lavoro. Lo scorso anno decide di iscriversi al corso universitario di specializzazione sul sostegno organizzato all’Università di Tor Vergata.
“Il Miur – racconta – poneva dei paletti rigidissimi per quanto riguarda la frequenza, praticamente senza possibilità di deroga. Non essendomi stato riconosciuta l’esperienza pregressa, ho dovuto svolgere anche il tirocinio, solo che la sede imposta è stata Grottaferrata. Il risultato è che, essendo in graduatoria a Rieti, ho dovuto smettere di insegnare, dunque di lavorare. Insomma: a 45 anni sono stata costretta a scegliere tra studio e lavoro e, dunque, a dover tornare a casa dai miei genitori per poter frequentare il corso”.
Ma non è finita: in ogni caso “sono stata esclusa dal concorso straordinario perché, nonostante i tre anni di sostegno alle superiori, mi si chiede un anno alle medie, dove mi sono specializzata, che non ho. Dunque: potrò fare solo il concorso ordinario che è a data da destinarsi”.
Una situazione paradossale, attacca l’insegnante: “Per il mio corso di specializzazione sono stata selezionata in entrata, ho superato diverse prove, un colloquio con una psicologa, esami laboratoriali, tecnologie applicate alla didattica. Poi 150 ore di tirocinio e l’esame in uscita, con una tesina da discutere di fronte a una commissione. Ma tutto questo non basta: mi si chiede di fare un altro concorso e addirittura ordinario, non straordinario”.
Va anche aggiunto che Licia, come gli altri suoi colleghi, per questo corso di specializzazione che ha superato ha pagato. E non poco: 3.000 euro più 150 di iscrizione. Ma anche questo evidentemente non basta.