Ultima modifica: 26 giugno 2023
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Scuola, Fracassi (Flc Cgil): il precariato di Stato deve finire

Intervista alla segretaria generale della FLC CGIL

Il diario del lavoro

Emanuele Ghiani

Sull’attuale situazione del sistema scolastico e dei suoi lavoratori il diario del lavoro ha intervistato Gianna Fracassi, segretaria generale della Flc Cgil, il sindacato dei lavoratori della conoscenza. Per Fracassi nel settore mancano le risorse, sia economiche che umane, e una buona fetta dei lavoratori vive una strutturale situazione di precariato. Le soluzioni per migliorare le condizioni di lavoro ci sono, a partire dal rinnovo del contratto, ma senza risorse e con una controparte al tavolo delle trattative che ha potere legislativo come lo Stato stesso, spiega la segretaria, le difficoltà per accelerare i tempi del rinnovo non sono poche.

Fracassi, a che punto siete con il rinnovo del contratto Scuola?

Prima di tutto specifico che abbiamo un unico comparto, quello della conoscenza, che comprende Scuola, Università, ricerca, alta formazione artistica musicale. A dicembre abbiamo chiuso un pezzo della parte economica e la chiusura della seconda parte è uno degli obbiettivi che ci siamo posti. Dobbiamo chiudere velocemente questo contratto, dato che è relativo al passato triennio e il vero obbiettivo è aprire il prossimo rinnovo di questo triennio, che riguarda il 2022-23-24.

Ci sono le condizioni per chiudere rapidamente il rinnovo?

Si, ci sono se sono presenti anche le sensibilità del Governo su alcune partite sbagliate che hanno determinato un rallentamento delle trattative, perché la responsabilità non è certo nostra. Noi abbiamo un nodo da sciogliere, cioè la restituzione di garanzie salariali attraverso il contratto di questo triennio dall’inflazione a due cifre. Quindi c’è la necessità che in legge di bilancio, e questa è una richiesta che abbiamo già fatto e rifaremo, ci siano le risorse necessarie per rinnovare i contratti pubblici e il contratto della conoscenza.

Il Governo metterà le risorse che chiedete per il contratto?

Se andiamo a guardare il DEF, il Documento di Economia e Finanza, non mette risorse, è un “vorrei ma non posso”. Questo non è accettabile. Una parte consistente dei lavoratori pubblici di questo paese non può non avere una risposta all’inflazione. Questi sono gli obbiettivi di medio termine, da qui fino al mese di ottobre.

E dopo?

Credo che ci sia una riflessione da fare sulla esigibilità per i contratti pubblici e sulla triennalità del modello contrattuale. Soprattutto in questa fase di alta inflazione, questo modello è un elemento di impoverimento e credo quindi che il sistema debba essere rivisto.

Una volta che la legge di bilancio è fatta, se non sono state messe le risorse per il contratto e dopo partite con il rinnovo di questo triennio come fate con le trattative? Non potete fare più nulla o mi sbaglio?

Esatto, non si può assolutamente più fare il contratto. Questo è il problema. Quando le dicevo del problema di esigibilità dei contratti per i pubblici mi riferivo a questo punto. Il contratto non è una gentile concessione. Il contratto è un diritto dei lavoratori pubblici. Noi non possiamo pensare che rispetto a questo diritto siamo sostanzialmente alle eventuali disponibilità dello Stato. Perché lo Stato in questo caso è il datore di lavoro ed è lo Stato che deve collocare le risorse e assumersi le sue responsabilità; soprattutto deve rinnovare i contratti.

I tempi sono stretti, farete in tempo con i rinnovi contrattuali?

Una cosa gliela dico per certo: noi non possiamo accettare che in questo triennio, che ha visto erodere gli stipendi dei lavoratori, pubblici e privati, non ci sia una risposta salariale adeguata. Questi sono settori dove la precarietà è quasi strutturale, come Scuola e Università, un precariato di Stato.

Ci sono altri modi per migliorare la situazione?

Una terza leva per rispondere all’impoverimento salariale, dopo l’esigibilità e l’accorciamento del tempo contrattuale, è la leva fiscale.  Qui si apre una dinamica confederale rispetto alle proposte di legge delega fiscale, che non vanno sicuramente nella direzione dell’equità.

Cosa farete nel caso in cui lo Stato chiuda la partita con la legge di bilancio? Avete in mente qualche reazione di forza, di lotta?

Noi siamo un sindacato. Di tutta evidenza che useremo tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione. Se non ci saranno risposte adeguate in legge di bilancio, se non si metteranno risorse sul rinnovo di un contratto, che ricordo riguarda il triennio 22-23-24 quindi ad oggi siamo già fuori di quasi un biennio, noi faremo tutto quello che un sindacato può fare in questi casi. È abbastanza semplice la risposta. Dopodiché c’è anche una mobilitazione della Cgil in generale per dare risposte sul versante salariale. Come categoria saremo della partita con la confederazione.

Facciamo per un attimo finta che lo Stato magicamente da domani voglia rinnovare rapidamente i contratti: ad oggi i tempi per fare tutti i rinnovi ci sono?

Certo, ci sono.

Quindi tutto dipende dalle risorse.

Si, ci deve essere un atto di indirizzo sulla base di risorse, perché altrimenti senza risorse a che cosa servirebbe un atto di indirizzo? Quindi l’atto di indirizzo, di competenza del dipartimento della funzione pubblica, sentiti i vari ministeri collegati come istruzione, università e ricerca, si apre nel momento in cui ci sono le risorse.

Inoltre il vostro tipo di contratto non ha quella manovrabilità, quella flessibilità che altri contratti si possono permettere.

Si, il nostro contratto è molto legato alle scelte ordinamentali, mi pare chiaro che siano molto collegati agli organici del personale, e questa è già una notevole differenza. Uno dei problemi che vedo è che in questi anni si è messo in campo una progressiva ri-legificazione di pezzi delle disponibilità contrattuali. Tanti pezzi sottratti alla contrattazione, penso a tutto il tema dell’organizzazione del lavoro, oppure tanti altri interventi, anche piccoli ma continui, che hanno tolto degli spazi contrattuali. È stata una operazione che si è portata avanti dal 2008 in poi circa.

Quindi non solo avete meno spazi di manovra in trattativa ma negli anni continuano a diminuire.

Si, ricordiamo che l’idea della contrattazione pubblica è nata da un obbiettivo di progressivo avvicinamento pubblico-privato; invece c’è una divaricazione su alcuni temi e terreni. Pensare di intervenire sul contratto pubblico con leggi, norme e circolari penso che sia profondamente sbagliato, culturalmente parlando. Abbiamo bisogno di allargare gli spazi contrattuali.

Come sindacato da dove si può partire per cambiare la situazione?

Prima di tutto dobbiamo riconquistare ciò che in questi anni è venuto meno. Questo è un mio obbiettivo che ho anche indicato nella mia dichiarazione programmatica, con tutta la fatica e le incognite che implica questo tipo di lavoro. Penso che questo serva anche per omogeneizzare le disponibilità contrattuali.

Immagino non sia un lavoro semplice considerate le spalle della controparte.

Si infatti, c’è questa leggera differenza rispetto ad altri settori o aziende, dato che abbiamo di fronte un datore di lavoro cha ha capacità normativa. In pratica uno degli attori in campo può cambiare le regole del gioco.

Da questa dinamica si può uscire?

Si può uscire se assumiamo il fatto che il terreno contrattuale diventa agibile per il sistema pubblico e non un luogo di “incursioni” legislative.

In che senso agibile?

Nel senso che si rispettano quelle che sono le regole che garantiscono, su alcuni terreni, la piena contrattualizzazione. Le ricordo che fino a 30 anni fa circa, il sistema pubblico, perlomeno la Scuola, agiva attraverso Dpr per definire i contenuti sia salariali che ordinamentali; oggi questo non c’è più perché abbiamo deciso di contrattualizzare tutto il sistemo pubblico. Poi ancora dopo c’è stato un progressivo intervento fino al decreto legislativo 150 la cosiddetta riforma Brunetta del 2009 che è intervenuta pesantemente da questo punto di vista, in particolare sull’organizzazione del lavoro.

Sull’organizzazione del lavoro che cosa ha cambiato la riforma?

Prima la contrattavamo, adesso abbiamo difficoltà. C’è stata un’ampia vertenzialità e nel tempo stiamo ricostruendo e riconquistando degli spazi, ma è molto faticoso. Potrei fare altri esempi di minore entità, come la mobilità, dove c’è stato un intervento progressivo di invasione degli spazi contrattuali. Oppure tutta la parte della formazione, che penso vada completamente contrattualizzata; un tema strategico per qualunque settore, in modo particolare nel settore della cultura.

Di formazione se ne parla spesso ma di concreto si vede poco.

Si e credo anche perché manchi la consapevolezza di cosa significhi; è un tema che può determinare l’inclusione o meno dei lavoratori al mondo del lavoro che evolve velocemente con l’avanzare della digitalizzazione e della tecnologia. Il famoso mismatchormai strutturale, che in molti si adoperano a correggere ma con ricette sbagliate a mio parere, è in parte legato a questi cambiamenti. Questo fenomeno dovrebbe imporre un sistema strutturato sulla formazione permanente. Bisogna mettersi nell’ottica che la formazione è un diritto del lavoratore, ma non solo, durante tutto l’arco della vita. Serve quindi una traduzione contrattuale di questo tema per farlo vivere.

Ad esempio?

Nel sistema scolastico abbiamo i CPIA (Centri provinciali per l’istruzione degli adulti, ndr) che giocano un ruolo essenziale per garantire anche pezzi di diritto alla formazione. Sono un pezzo di sistema pubblico, scarsamente valorizzato e comprendo le ragioni se consideriamo la progressiva esternalizzazione o privatizzazione. È paradossale che noi abbiamo così tanti CPIA per l’educazione degli adulti, ne abbiamo al contempo assolutamente bisogno ma come risultato non funzionino.

Come mai?

Sono istituzioni scolastiche che hanno poche risorse sia economiche che umane per funzionare bene. Non si è investito abbastanza. Un altro ostacolo è l’incapacità di mettere a sistema le risorse che ci sono, di fare sinergia. Potrebbero giocare un ruolo chiave ma va ricostruito tutto un apparato. Ma soprattutto c’è una latenza, una inerzia sulla formazione come reti territoriali.

Cioè?

Nel 2011 c’è stata una legge che ha provato ad affrontare questo tema: dovevano essere costituite delle reti territoriali che mettevano insieme tutti i soggetti e gli attori che si occupano della formazione per gli adulti ma il progetto è rimasta lettera morta. Questa rete non l’ha implementata quasi nessuna regione. Pensi che quella legge diceva espressamente che la formazione durante tutto l’arco della vita è un diritto.

Quindi la legge esiste ma le regioni non hanno fatto nulla.

Esatto. Mi pare giusto un paio di regioni abbiano provato a costituirle ma stiamo parlando di quasi 12 anni fa. Mi sembra evidente che non ci siano sviluppi ad oggi. Pochi tentativi abbastanza limitati. Mentre la formazione è un tema anche democratico, perché permette al lavoratore l’effettiva partecipazione all’organizzazione non solo economica ma politica e sociale del Paese, obbiettivo che troviamo nell’art.3 della nostra Costituzione. Invece progressivamente c’è un allontanamento delle persone dalla vita pubblica, come abbiamo visto dalla scarsa affluenza alle recenti elezioni politiche e amministrative. Sono dati sconfortanti.

Da quando ho memoria le risorse all’istruzione sono quasi sempre state tagliate nell’ordine di miliardi di euro. Quando ero studente ricordo che intervenne la riforma Gelmini con un taglio in tre anni quasi 8,5 miliardi. In tutti questi anni è mai cambiata questa tendenza?

Sicuro fu una scelta scellerata di fare quel taglio epocale. Come abitudine è sicuramente rimasta la sottovalutazione dell’importanza dell’investimento nell’istruzione. Non so darle dei dati precisi ma si, siamo ancora in quel trend. Le faccio un esempio: si utilizza la scusa del Pnrr per fare ulteriori tagli, mi riferisco al dimensionamento scolastico, mi pare che sia una mera operazione di cassa. Non vedo utilità rispetto a una riorganizzazione della rete scolastica. Vuol dire che non abbiamo capito ancora niente. Una parte consistente del personale scolastico vive ancora in una condizione di precarietà infinita. Come gli insegnanti di sostegno, che seguono i ragazzi con disabilità.

Qual è la loro situazione?

Abbiamo 100.000 cattedre a tempo determinato. Quindi 100.000 cattedre che non diventano mai stabili. Ed è una condizione strutturale. Ma come possiamo pensare di dare una risposta di qualità a questi ragazzi e ragazze? E non parlo di qualità dell’insegnamento ovviamente. Parlo del fatto che una delle condizioni per seguire al meglio i ragazzi, in particolare con disabilità, dovrebbe essere quantomeno la stabilità delle loro figure di riferimento.

In questo scenario cosa ne pensa dell’autonomia differenziata?

Sappiamo benissimo che nel nostro paese sono aumentare le disuguaglianze sia economiche che sociali ma qui si pensa di istituzionalizzarle. Il disegno di legge Calderoli è una di quelle riforme che dividono il paese e non danno risposta alla solidarietà e alla coesione sociale. Ricordo che prevede la scelta alla carte di ciascuna regione dei livelli di autonomia. Ma questa è la negazione di una idea di Paese. Non rappresenta un miglioramento neppure per quei territori più ricchi. È proprio sbagliato culturalmente, oltre che dal punto di vista economico e di sviluppo. Ma come si può pensare, in un contesto globale che sta procedendo a un rafforzamento delle grandi potenze, durante un processo di de-globalizzazione così forte, di competere con le piccole patrie? Noi avremo bisogno non solo come Italia ma come Europa di costruire degli elementi forti di competizione e di sviluppo, aggiungo sostenibile.

Come sindacato cosa si può fare?

Ci siamo già attivati come organizzazione, non lasceremo nulla di intentato. Il primo tema sarà fare capire gli effetti di queste riforme, sia nelle assemblee che nei luoghi di lavoro, e continueremo a farlo.